Questa è una di quelle recensioni molto difficili da scrivere. Di libri sull’olocausto ne ho letti molti ma ogni volta è sempre più arduo raccontarli.
E’ doveroso precisare che ciò che leggerete, per quanto abbia cercato di non entrare in dettagli e non rovinare nemmeno la lettura, non sarà facile, soprattutto se siete molto sensibili.
di Heather Dune Macadam, edito Newton Compton Editori, pubblicato il 20 dicembre 2019.
384 pagine. Cartaceo 4.66€ – Ebook 5.99€
Febbraio 1941, il governo slovacco, annuncia che tutte le ragazze nubili dai 16 anni in su vadano a lavorare fuori dal paese, dichiarando che sarà “un opportunità di lavorare per il governo”. Queste giovani ragazze, insieme alle loro famiglie, credono che sarebbero andate a lavorare in una fabbrica di scarpe, e sarebbero dovute tornare dopo 3 mesi. Le giovani, continuarono ad essere ignare di cosa le aspettava, continuando a credere che quella fosse la loro opportunità, di fatti alcune ridevano e scherzavano mentre andavano incontro a un futuro nero.
In realtà erano state “chiamate” per costruire, ad Auschwitz, gli edifici che avrebbero accolto gli ebrei deportati dalla Polonia, ed essere “sfruttati sino alla morte“.
Non esistono documenti che testimoniano di conferenze tenute tra i capi del governo tedesco e sloveno riguardo al trasporto delle ragazze, tutto fu fatto a porte chiuse in assenza di stenografi. Questi uomini decisero per la vita di queste giovani donne e “non pensarono minimamente alle proprie figlie, mogli o sorelle“.
“Che cosa potevano volersene fare? Non erano altro che bambine, la maggior parte”
(da sinistra: ragazza non identificata, Anna Herskovicova, un altra ragazza non identificata, Lea Friedmann, and Debora Gross, nel 1936.)
Himmler ordinò che il primo trasporto fosse di 999 donne, fissato con numeri e l’astrologia, oltre che maniaco del controllo.
“Erano arrivate – quasi bambine – dalle braccia delle madri in uno stato di ingenuità e ignoranza del loro futuro destino”
Dopo alcuni giorni passati in una caserma con pochissimo cibo, il 25 marzo le ragazze arrivano ad Auschwitz, si ritrovano in un posto lontano dal mondo, lontane dagli affetti, senza riscaldamento, né letti ma solo un po’ di paglia ricoperta di cimici e pidocchi.
Giovani donne per bene, che fino a quel momento avevano vissuto nel calore della propria famiglia, si ritrovano depredate non solo della loro vita ma anche della loro verginità.
(da sinistra: Edith Friedman con sua sorella Lea)
Nude nella neve alta fino alle ginocchia per ore, “disinfettate” in un acqua sudicia, gli vengono consegnati dei vestiti inadatti, prive di biancheria intima, con ai piedi degli zoccoli, spesso spaiati.
A colazione ricevono tè con il bromuro: “non dovevamo pensare“, dice una delle sopravvissute. Cibate solo con un pezzetto di pane e zuppa con verdure marce, o carne di cavallo morto spedita dal fronte russo, non faceva solo schifo ma provocava diarrea e acidità di stomaco.
“Nessun ebreo ha la pancia piena ad Auschwitz”
Costrette a lavori, orari e situazioni disumane. La paura fa parte della loro quotidianità, con il terrore delle camere a gas, di essere uccise dai cani, dalle kapò, dalle SS. Vedono le loro amiche morire di malattia e di fame.
Immagine dei forni crematori (fonte:internet)
Spostate successivamente a Birkenau le condizioni peggiorarono. Due ragazze furono costrette addirittura a lavorare per “l’angelo della morte”, Mengele.
In quelle situazioni una piccola gentilezza poteva fare la differenza, poteva significare la vita. C’era l’egoismo dettato dalla fame ma c’era la nobiltà d’animo, come la dott.sa Manci Schwalbova che aiutò alcune ragazze ad evitare la camera a gas.
La dott.sa Manci Schwalbova
Questa è una storia sconosciuta, io stessa nonostante abbia letto molto sull’argomento non ne ero a conoscenza, non è riportata nei libri di scuola e ancora meno è presente in internet.
Il libro racconta la chiamata a questo “lavoro” fuori dalla Slovacchia, del viaggio fino ad Auschwitz, della permanenza nei campi di concentramento, della loro lotta per sopravvivere, di chi persero, delle marcie della morte e del loro ritorno a casa, non per tutte gioioso. Molte non tornarono più a nulla: non avevano più una famiglia, una casa e un paese.
Una storia di disperazione, di sofferenza, di privazioni ma di volontà di tornare alle proprie case e di riabbracciare le proprie famiglie.
Raccontare questo libro in poche righe è impossibile. E’ impossibile riassumere tutto ciò che l’autrice, Heather Dune Macadam, nelle sue profonde e straordinarie ricerche, insieme alle interviste di alcune sopravvissute, è riuscita a scrivere. Ciò che fa riflettere è la mancanza dei registri riguardo a questi trasporti e al numero delle morti, perché quando le donne iniziarono a morire di fame e stenti non vennero registrate.
Leggere questo libro da voce alle voci delle sopravvissute e per chi non ce l’ha fatta.
“Eravamo tutti malati, ne siamo usciti, ma il danno che è stato fatto, mentalmente, è molto più grande di quelli che erano i nostri problemi fisici. Non ci libereremo mai e poi mai di quello che hanno fatto ai nostri cuori, di come hanno cambiato il mondo e le persone” – Edith Friedman, sopravvissuta.
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